Se Mastodon avesse miliardi di utenti…

Sul numero scorso di Umanità Nova, Pepsy[1] risponde in maniera ampia ed articolata al mio precedente articolo “Il Potere della Comunicazione”[2] ed i suoi appunti critici vertono su due livelli. Il primo è, per così dire, di carattere “storiografico”, perché nella mia ricostruzione “dei rapporti tra movimenti comunicazione e, in particolare, sugli strumenti usati negli ultimi 50 anni viene fatto nell’articolo in questione un salto troppo lungo che partendo dalla stagione delle “radio libere”, arriva alla comparsa di Internet (…). Tra la fine della stagione delle radio e la nascita del web non c’è stato il vuoto ma si è sviluppato – all’interno dei movimenti – una nuova stagione di attività e di interesse soprattutto per la comunicazione mediata da computer. Questo è avvenuto molto prima che venisse fondata la prima società intenzionata a sfruttare le reti a scopo di lucro, ben prima che gli apparati statali iniziassero a preoccuparsi delle potenzialità dello strumento. Stiamo parlando dell’epoca delle BBS: un fenomeno che in Italia ha avuto anche una chiara colorazione politica e di movimento.”

Inizio da questo punto, perché c’è ben poco da dire: in effetti, per completezza d’informazione, avrei dovuto almeno sfiorare questa stagione che, tra l’altro, ho sia pure un po’ tangenzialmente vissuto. A mia parziale discolpa, il tema del mio articolo era centrato sulla comunicazione dei movimenti verso l’esterno e, magari mi sbaglierò, la stagione delle BBS era legata ad una comunicazione rivolta sostanzialmente verso l’interno ed in più mediata da specialisti. Abbiamo poi una differenza di valutazione sull’impatto che le normative amministrative e fiscali hanno avuto sulla scomparsa della gran parte delle radio libere di movimento, impatto che ritengo molto più significativo e non secondario, tra l’altro avendo vissuto e seguito questo fenomeno molto più internamente delle BBS – all’epoca avevo come soprannome “Enrico Transistor”, un soprannome che non a caso è scomparso dopo l’ultimo tentativo di mettere in piedi una radio libera di movimento nella mia città. Si trattò di normative repressive molto simili a quelle che, oggi, tendono ad appioppare enormi multe ad una serie di forme della lotta sociale allo scopo di scoraggiarle in maniera più incisiva della minaccia della galera. Certo, ci si poteva consorziare – qualcuno come Pepsy ricorda lo ha fatto – ma i meccanismi burocratici necessari, per non parlare della mentalità conseguente, era lontana dalla maggioranza dei piccoli collettivi locali cui poteva venire in mente di mettere in piedi questo genere di strumento di comunicazione che vennero così fortemente scoraggiati.

Passiamo ora all’altro punto, credo ben più sostanziale, di divergenza. Dice infatti Pepsy: “Il secondo punto critico è relativo alla descrizione ed al giudizio riguardante il fenomeno dei “social” che sono diventati sicuramente un campo dove si giocano molte partite importanti e a tutti i livelli. (…) Manca però nell’articolo almeno un accenno alla diversità pure esistente tra i diversi ‘social’ che sembrano, quindi, venire considerati tutti strumenti potenzialmente ‘libertari’. Oltretutto non viene citata direttamente alcuna piattaforma e, quindi, non si capisce se si faccia riferimento a tutte o solamente a quelle maggiormente diffuse e conosciute. Nell’articolo non si tiene conto che la maggior parte di questi strumenti sono nati, al contrario di altri, con il preciso scopo di generare profitto e limitare al minimo indispensabile la libertà dei loro utenti. (…) Non si tratta quindi di strumenti di comunicazione nati “liberi” e poi censurati o conquistati dalle gerarchie ma di prodotti commerciali spacciati per aperti e gratuiti (…) restiamo fermamente convinti che ‘usare quel genere di strumenti significa, tra le altre cose, accettare implicitamente che le nostre comunicazioni siano inglobate in un prodotto commerciale e sottoposte al vaglio insindacabile di un programma e quindi di chi lo ha scritto e/o di gruppi di censori umani addetti a controllare in ogni momento quello che viene pubblicato. Significa perdere completamente la possibilità di decidere in autonomia i nostri tempi, i nostri temi e le nostre modalità espressive. Significa, al minimo, doverci autocensurare per evitare di incorrere in sanzioni che non ammettono un contraddittorio. Significa dipendere per le comunicazioni collegate alle nostre proteste da una entità che ha il solo scopo di generare profitto e che potrebbe bloccare tutto senza dover rendere conto ad alcuno. In alcuni casi, significa credere, in misura minore o maggiore, che i movimenti sociali nascano davvero su FB piuttosto che dalle contraddizioni reali e concrete del sistema.’[3] Significa, inoltre, partecipare attivamente alla diffusione di strumenti che sono tra i principali produttori di disinformazione (quelle che chiamano ‘fake news’) piuttosto che lavorare alla nascita e allo sviluppo di altri realmente liberi. Più pericolosa è la valutazione positiva che viene data nell’articolo dei “gruppi di vicinato e prossimità”, in quanto sono proprio quelli gli aggregati sociali che esplicitamente vengono considerati dalle forze politiche come la base migliore per la creazione di capillari reti di controllo del territorio ‘dal basso’ in collaborazione con le forze dell’ordine.”

La mia opzione politica qui è decisamente diversa da quella di Pepsy e cercherò di spiegare il perché. Noi facciamo cortei per scopi comunicativi od altro. Le strade su cui li facciamo non sono nate “libere”: sarebbe lunga da ripercorrere la dinamica del rapporto tra potere politico e vie di comunicazione ma credo sia inutile, perché tutti, chi più o chi meno, abbiamo presente il nesso presente fin dall’antichità tra governi e/o grandi forze economiche private e la costruzione e/o il dominio sulle vie di comunicazione. A tutt’oggi esse non sono “libere” ma sottoposte al controllo di un’autorità. I cortei li facciamo lo stesso, riprendendone il controllo per quanto possiamo: in alcuni casi di più, in altri casi di meno.

Occupiamo (in senso ampio) spazi abbandonati o comunque liberi per dargli nuova vita e funzione sociale. Questi spazi, ancora più evidentemente, non sono nati “liberi” ed a tutt’oggi non lo sono: persino nei rari casi in cui sono stati concessi in gestione dalle autorità o negli ancor più rari casi in cui vengono acquistati, la concessione può sempre essere revocata e la proprietà espropriata. Ciononostante li usiamo lo stesso, in alcuni casi con maggiore libertà, in altri con meno.

Tutti noi viviamo immersi in relazioni sociali e facciamo parte, volenti o nolenti, in maniera più o meno partecipativa secondo i casi, di un bel numero di “gruppi di vicinato e di prossimità” – specialmente intendendo “prossimità” in un senso non strettamente spaziale. Le forze di potere da sempre, rete o non rete, cercano di utilizzarle ai loro fini e l’azione politica dei movimenti fa la stessa cosa. Da sempre, il modo migliore per lasciare al potere il loro controllo è stato ritirarsi dalla presenza antagonista al loro interno. Mi fermo qui ma è evidente che potrei andare avanti a lungo.

Questo significa che dobbiamo limitarci nella “gabbia dei social” e non creare “strumenti di comunicazione interpersonale e di massa alternativi a quelli del potere”? Si possono fare entrambe le cose: il problema, però, è capire quali sono i nostri scopi – per tornare ad una cosa detta prima, se ci interessa una comunicazione rivolta verso l’esterno o rivolta verso l’interno. Ho l’impressione che andrebbero adottate entrambe le strategie comunicative.

Un sistema come Mastodon,[4] per fare solo un esempio, è ottimo per la comunicazione interna di movimento: da un lato non ha algoritmi deformanti, dall’altro non si è immersi dal “rumore” della comunicazione degli “esterni” – meme dei gattini od altro. Dopo di che, se voglio sapere l’opinione dei miei colleghi di lavoro, amici, vicini, ecc. ecc. e comunicargli la mia, è del tutto inutile.[5] In questo caso devo entrare nella “gabbia dei social” e lottare contro i loro algoritmi per cercare di fare il meglio che posso. Come faccio fuori dalla rete, immerso come sono nelle dinamiche di potere, diciamo così, “vecchio stile”.

Una nota finale. Tutti gli “strumenti di comunicazione interpersonale e di massa alternativi a quelli del potere” che ci possono venire in mente, se vogliono raggiungere il livello di comunicazione planetario, non viaggiano magicamente nell’aria: sono legati anch’essi ad infrastrutture fisiche ben poco “libere” e tanto meno nate tali. Smettiamo di usarli e progettarli per questo o, nel caso, facciamo battaglia politica per il loro utilizzo il più possibile libero? Non esistono strumenti di comunicazione “libertari” od “autoritari” di per se: sono le dinamiche sociali che vi portiamo dentro che li rendo tali. In questo senso Pepsy non ha capito male: per me i media sono tutti potenzialmente libertari, come le strade di Kobanê una volta liberate dall’ISIS.

Enrico Voccia

NOTE

[1] PEPSY, “Potere e Comunicazione Sociale”, in Umanità Nova, n. 7, 2019.

[2] VOCCIA, Enrico, “Il Potere della Comunicazione”, in Umanità Nova, n. 7, 2019.

[3] PEPSY, “Autunno in giallo”, in Umanità Nova, n. 35, 2018.

[4] https://joinmastodon.org/ . Per tagliarla con l’accetta e descriverlo sommariamente a chi non lo conoscesse, una sorta di via di mezzo tra twitter e facebook “di movimento”. C’è anche Umanità Nova.

[5] Se così non fosse, se strumenti come Mastodon fossero frequentati dalla maggioranza dei sette miliardi e mezzo di abitanti del pianeta, staremmo a discutere di altro.

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